Da Giotto a Pontormo: iconoclasti della “maniera” nella collezione degli Uffizi

Maestà Rucellai di Duccio di Buoninsegna

Esempio di Maestà alla “maniera dei primitivi”

Altri saranno presi dalla sindrome di Stendhal cioè da giramenti di testa e mancamenti di fronte alle opere d’arte; diversamente non  riesco ad evitare una vera e propria esaltazione quando entro nella sala n. 1 degli Uffizi, detta “dei primitivi”. Passi una porta e ti appaiono tre enormi Maestà, Madonne in trono con bambino; proprio di fronte quella di Giotto e ai lati, speculari, quella di Duccio di Boninsegna  e quella di Cimabue. Il primo impulso è quello di gettarsi in ginocchio e recitare l’Annunciazione, tanto sono maestose e intense, ma se si riesce a resistere e a connettere ancora , si comincia a domandarsi perche’ sono  lì insieme e disposte a quel modo.

Sono lì insieme e disposte a quel modo perchè il visitatore attento e non digiuno di storia dell’arte possa vedere come tutte e tre sono così uguali e così diverse: il tema è il medesimo, il fondo oro pure; tuttavia è evidente che le due laterali, speculari, di Duccio e di Cimabue si attengono a un canone di derivazione orientale-bizantina: le due Madonne hanno la carnagione grigio-rosa, la testa reclinata in maniera evidente su di un lato e le dita delle mani lunghe e affusolate; assomigliano tantissimo alle icone greco-ortodosse e a quelle russe perche’ la matrice comune risale all’arte bizantina dell’alto medio- evo. Insomma, all’epoca, chi avesse voluto dipingere una Madonna in trono avrebbe dovuto attenersi a quel canone e era ben conscio che quel tema doveva essere trattato cosi’.

La Madonna di Giotto  fà da cesura tra le altre due; perche’ Giotto trascende quel canone iconico, lo supera e innova il linguaggio pittorico;così come il verbo si fà carne, egli ci rappresenta una Madonna anche donna e sullo sfondo dorato rende un bell’incarnato roseo sia al volto sia alle mani; il volto meno fisso e meno reclinato e le dita delle mani di vera carne, cosi’ come i seni ben evidenziati che emergono dal drappeggio dell’abito e del mantello. Si noti poi l’accenno di prospettiva con cui e’ dipinto il trono.

Maestà Ognissanti di Giotto

Maestà Ognissanti di Giotto: esempio della “rottura” della maniera dei Primitivi

L’icona  diventa così Ma-donna e nella sua maggior verosimiglianza femminile si offre al culto Mariano che esplode in quegli anni, effetto e causa dello stesso, pur nella sostanziale parsimonia  e stringatezza di testo con cui i vangeli e gli atti degli apostoli narrano della  figura di “Miria’m”.

Mi piace pensare  pero’ che queste tre “Maestà” siano accomunate da un particolare che non si nota più e che rivela la loro comune origine: l’aureola. L’aureola è quel disco, solitamente d’oro nei primitivi, che circonda e evidenzia la testa della divinita’ e dei santi; ecco proprio nella funzione di evidenziare nasce il cerchio che circonclude la testa del soggetto più importante della composizione pittorica. In questa funzione didascalica  questo simbolo, già usato nell’antichità, riappare in territorio italiano nei mosaici delle basiliche ravennati di san Vitale e sant’Apollinare in Classe dove i frequentatori della chiesa dovevano poter distinguere, nella rappresentazione, le figure dell’imperatore , dell’imperatrice e dei santi.

Proseguendo nelle sale voglio poi sorvolare sulla perfezione di  Gentile da Fabriano, maestro insuperato del gotico internazionale per sottolineare che solo i 2/3   dei visitatori della cappella Brancacci, in piazza del Carmine a Firenze , sono italiani mentre i restanti altri accorrono da tutto il mondo per vedere questo episodio immenso del passaggio dal gotico elegante di Masolino all’arte possente e innovativa di Masaccio; e gli apporti pittorici di Filippino Lippi ti vengono come in regalo.

E non voglio soffermarmi piu’ di tanto nella sala di Botticelli, sempre la piu’ affollata, ma evidenziare come le stesse dame, le piu’ belle di Firenze, le stesse acconciature, gli stessi volti, siano affrescati dal Ghirlandaio nel ciclo di dipinti dietro l’altare principale di santa Maria Novella; sì, proprio quella che si vede appena usciti dalla stazione  omonima.

Nell’ala di ponente dei nuovi Uffizi e’ oggi esposto il “tondo Doni“ di Michelangelo: la perfezione. Citare Michelangelo e’ strumentale per poter parlare di Pontormo e di Rosso Fiorentino. Questi due pittori, al di fuori dell’ambito toscano e anche in toscana, forse si sono sentiti nominare ma non se ne ha la minima conoscenza, al di fuori di qualche addetto ai lavori; un vero peccato perche’ sono dei grandissimi innovatori del linguaggio pittorico e nelle loro opere si può leggere una modernità che lascia incredulo e ammirato il fruitore. Di fronte e dopo la perfezione di Michelangelo che può fare un artista pittore? La domanda se la poneva già il Vasari e si rispondeva che bisogna dipingere “alla bella maniera”, alla maniera moderna, riferendosi alla maniera di dipingere di Michelangelo e di Raffaello, maestri supremi, non superabili.

Tondo Doni di Michelangelo

Il Tondo Doni: icona della classicità michelangiolesca

La risposta di Rosso Fiorentino e di Pontormo fu invece quella di cercare altre vie, altre strade, canoni diversi dalla perfezione nei colori, nella composizione pittorica, nella rappresentazione del corpo umano, nell’equilibrio classico e spesso simmetrico delle geometrie dei dipinti .

Ecco allora la rivelazione di quest’opera di Rosso Fiorentino ,”Mose’ difende le figlie di Jetro”; l’opera e’ ripiena di corpi maschili dalle forme potenti e dalla dinamica ancora michelangiolesche; ma il linguaggio pittorico è del tutto diverso e sovverte tutti i canoni .

Vi si puo’ leggere una rottura dell’unita’ di tempo e di luogo,come fara’ Manzoni nel teatro qualche secolo dopo; in primo piano, il protoagonista Mose’,avvolto da un piccolo manto di colore blu, abbatte con violenza i pastori che volevano approfittare dell’acqua delle figlie di Jetro; in un momento successivo a questa azione e in altro luogo contiguo ma diverso lo stesso Mosè corre verso la figlia di Jetro forse per rassicurarla: questo avviene in un secondo piano e col protagonista che ha il medesimo piccolo manto ma di colore, sul rosato, diverso; colore diverso uguale tempo e luogo diverso ?

Se si pensa a tutto questo è come passare da uno spazio euclideo lineare a uno spazio-tempo influenzato e curvato dalla massa dove in questo caso lo spazio e il tempo del dipinto sono influenzati e definiti dal  fluire e concatenarsi degli eventi in una unità di molteplici spazi e di molteplici tempi. Questo “flusso di azioni“ non puo’ non richiamare alla mente il “flusso di coscienza”che si ritrova nell’Ulysses di James Joyce; il discorso pittorico fluisce sulla tela con percorsi plurimi del pensiero e con collegamenti mentali del tutto personali.

Di Pontormo troviamo  agli Uffizi il “ Ritratto di Cosimo il vecchio” e la “Cena in Emmaus”, ma piace considerare che con pochi passi e attraversando l’Arno si puo’ ammirare nella chiesa di Santa Felicita la deposizione  in situ nella cappella Capponi.

Il nostro paese ha questo di meraviglioso: che muovendosi di poco ,si possono trovare “in situ” cioe’ nel luogo per cui quelle opere sono state commissionate, opere museali e capolavori che nessuno si aspetterebbe.

Visitazione di Pontormo

La Visitazione dipinta dal Pontormo: assieme al Rosso Fiorentino, è il grande “sovvertitore” della Maniera basata sulla lezione di Michelangelo e Raffaello.

A questo proposito non posso non rammentare la “visitazione” di Maria a sant’ Elisabetta fin a poco tempo fa nella chiesa dei santi Michele e Francesco a Carmignano in provincia di Prato. Il dipinto di Pontormo si trovava subito a destra dell’entrata, sull’altare per il quale era stato dipinto; e’ stato da poco rimosso dalla sua sede naturale, con la scusa di un restauro di cui non aveva bisogno, dato che ne era già stato eseguito uno nel 2008; in realtà per  essere esposto a breve a palazzo Strozzi nella mostra dedicata a lui e a Rosso Fiorentino.

Il dipinto ha colori vividi e intensi quasi “acrilici” per la loro brillantezza, su un fondo scuro. La” visitazione “di Maria a sant’Elisabetta prevederebbe due personaggi principali e invece qui troviamo quattro figure; due di profilo che si abbracciano e si guardano negli occhi partecipi del pathos del momento dell’incontro e due di fronte che guardano il visitatore e sono come estraniate dal contesto della scena; sono nel dipinto a stretto contatto con le figure in primo piano ma sono in una dimensione altra, rispetto alle protagoniste.

Lo sfondo e’ qui  inessenziale e appena abbozzato ; salvo due personaggi, quasi invisibili nel quadro, di minuscola proporzione , rispetto alla dimensione delle figure principali, che sembrano essere figure maschili, di cui una siede su una panca in pietra con la gamba accavallata e l’altra in piedi con passo frettoloso; entrambe le figure hanno però il viso rivolto alla scena principale; siamo noi, piccola umanita’ che guarda alle cose celesti grandi ?

Tutta la composizione assume un carattere onirico, di espressione tutta intellettuale estraniata dalla realtà quotidiana; varie sono state le interpretazioni circa le due figure di fronte: sono due angeli? o sono le stesse Maria ed Elisabetta,viste da una ulteriore prospettiva  frontale dopo averle raffigurate di profilo?

Qualunque sia la chiave di interpretazione il dipinto è magnifico nei suoi colori, nella sua composizione  cosi’ anticlassica e innovativa, nella eleganza dei panneggi dei tessuti degli abiti.

Al dunque sia Rosso che Pontormo non dipingevano “alla bella maniera“ nè “alla maniera moderna” cosi’ come intesa dal Vasari, ma entrambi tentarono  linguaggi pittorici nuovi, riuscendo a meravigliare ancora oggi per la loro sorprendente attualità; sono stati quindi dei grandi innovatori e nient’affatto dei manieristi.